giovedì 22 giugno 2023

Il termine “bastardo” nel Quattrocento non doveva avere la valenza spregiativa

Il termine “bastardo” nel Quattrocento non doveva avere la valenza spregiativa che gli attribuiamo noi oggi, se per esempio Jean de Dunois, indomito cavaliere e luogotenente generale dell’esercito francese durante la parte finale della Guerra dei Cent’Anni, andava fiero del soprannome “le Bâtard d'Orléans”, che ne sottolineava l’appartenenza, seppure solo per via naturale, alla più importante famiglia ducale del suo Paese, oltre che la stretta parentela che lo legava al re Carlo VI di Francia, di cui era cugino.
 
Ma in un certo senso il XV fu davvero il “Secolo d’oro” dei figli naturali, perché in tempi in cui altissima era la mortalità infantile e brevissima l’aspettativa di vita per donne e uomini, questi ultimi, spesso impegnati in logoranti campagne militari che li tenevano lontani da casa per mesi o anni, volevano assicurarsi una discendenza il più possibile numerosa per garantire la continuazione della propria stirpe e si sentivano dunque in diritto di dare libero sfogo ai loro istinti naturali.
 
Seminare figli al di fuori del matrimonio o, nel caso di ecclesiastici, in violazione del voto di castità, costituiva pertanto una pratica a quei tempi quasi normale ed accettata da tutti, persino dalle legittime consorti di quegli uomini che, rincasando, chiedevano loro senza imbarazzi di occuparsi, oltre che dei propri, anche dei figli nati da quelle scappatelle.
 
In ambito italiano, se il probabile figlio naturale di Giuliano de’ Medici, il fratello del “Magnifico”, ascese addirittura al soglio pontificio col nome di Clemente VII, è praticamente impossibile elencare tutta la prole illegittima messa al mondo dagli appartenenti alle diverse Casate signorili.
 
Chi però si distinse maggiormente in questo particolare campo, insieme ai Visconti e agli Sforza,  furono gli Este ed in particolare il Marchese di Ferrara Niccolò III, che nei primi decenni del XV secolo, fra legittimi e non, si dice sia stato il padre di almeno una trentina di figli, tanto che il poeta Matteo Bandello lo definì “il Gallo di Ferrara”, sottolineando come “non c’era cantone ove egli non avesse alcun figlio bastardo”, mentre il popolo se la rideva canticchiando: “di qua e di là dal Po sono tutti figli di Niccolò”.
 
Nella maggior parte dei casi a questi stessi figli, una volta legittimati, istruiti e cresciuti insieme ai fratelli nati in seno al matrimonio, nulla impediva di “fare carriera”.

Questo fu il caso per esempio di Leonello d’Este, successore di Niccolò III, che oltre ad essere un ottimo politico fu anche un raffinato umanista. Alla sua corte infatti chiamò a lavorare artisti del calibro del Pisanello, Piero della Francesca, Andrea Mantegna e il fiammingo Rogier Van der Weyden.
 
Anche Leonello ebbe almeno un figlio naturale nato nel 1430, Francesco che, quando aveva più o meno quindici anni, per ricevere un’educazione aristocratica fu mandato alla corte di Filippo III di Borgogna, allora lo Stato più ricco e raffinato d’Europa e per questo considerato dalle Signorie italiane un modello da imitare.
 
Preso a ben volere da Filippo, non per nulla soprannominato “il Buono”, Francesco fu da lui istruito ed avviato al mestiere delle armi insieme a suo figlio Carlo, il futuro “Temerario”. Il giovane estense a Bruxelles si ambientò presto e bene, tanto che gli furono anche affidati alcuni delicati incarichi diplomatici.
 
A conferma della sua rapida affermazione sociale fra il 1455 ed il 1460 fu magistralmente ritratto dal pittore più in voga del momento a quelle latitudini, cioè lo stesso Van der Weyden che aveva lavorato a Ferrara per suo padre.
 
Francesco ci appare di tre quarti su uno sfondo bianco avorio che fa risaltare la veste scura da lui indossata, ben diversa da quelle sfarzose e dai colori sgargianti tanto in voga nell’Italia di quegli anni. Il nero infatti presso la corte borgognona era considerato, pur nella sua sobrietà, di eleganza “minimal”.
 
L’espressione del volto, non bello ma neppure privo d’un certo fascino aristocratico, caratterizzato da un naso aquilino, due occhi pensosi e un casco di lunghi capelli scuri che gli ricoprono interamente la fronte secondo la moda del tempo, pare accigliata intanto che volge lo sguardo lontano, quasi a riflettere sul proprio futuro.
 
La presenza di una pesante collana d’oro che fuoriesce appena dal colletto della camicia e di un anello al dito mignolo ci ricordano che siamo di fronte ad un personaggio altolocato, così come la simbologia studiata dall’artista.
 
Francesco infatti stringe fra le dita della mano destra un anello che allude forse ad un pegno amoroso, intanto che impugna un martelletto. Per capire il significato della presenza di questo oggetto bisogna però rigirare l’opera e leggere la dedica che appare sul retro della tavola.
 
La consonante M sta per “Marchio”, termine latino che significa “Marchese” ma anche “Martello” in italiano antico, mentre la vocale E significa “Estensis” proprio accanto al nome “Francisque” scritto per esteso.
 
Si tratta insomma dell’orgogliosa rivendicazione di un “bastardo” della propria appartenenza alla nobile Casata paterna o in altre parole della legittimazione dello status sociale di questo giovane del quale, se non fosse stato per il ritratto che lo ha immortalato, non avremmo forse mai sentito nemmeno parlare. 
 
Accompagna questo scritto il “Ritratto di Francesco d’Este” di Rogier Van der Weyden, 1455-1460, esposto al Metropolitan Museum of Art, New York.
 
(P.s.: scritto da Anselmo Pagani)

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